Per la prima volta un team composto dal presidente del Comitato 3 ottobre, Tareke Brhane e un medico legale del LABANOF (Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell'Università degli Studi di Milano) si sono recati in missione in Uganda a Kampala per cercare di dare un nome a chi oltre 12 anni fa perse la vita nel tragico naufragio del 3 ottobre 2013 a Lampedusa.
Un viaggio partito con l’idea di intervistare e prelevare il DNA a 2/3 famiglie, ma il tam tam all’interno della numerosa comunità eritrea ha fatto sì, che il numero di interviste sia diventato molto più numeroso. Alla fine sono state undici le famiglie intervistate.
Un incessante lavoro di giorno e di notte, svolto in una delle tante periferie di Kampala, lontano dalle luci sfavillanti del centro, alla ricerca di farmacie aperte per acquistare tamponi salivari. Non ne avevamo a sufficienza. Le storie sono davvero tante. M che cerca la sorella, B. che cerca il figlio, S. che cerca il fratello, A. che cerca la madre, B. e A che cercano il figlio.
Il fil rouge che unisce, però, queste storie è la disperazione e il non sapere che fine abbiano fatto i propri cari. Chi ha tentato il viaggio perché perseguitato per motivi religiosi, chi per sottrarsi alla leva obbligatoria, chi per cercare di trovare un luogo sicuro in cui vivere e lavorare.
Il dolore dei parenti è straziante, è il dolore di chi sa che non potrà più vedere il proprio caro, ma che non può mettere la parola fine. Un dolore che va di pari passo con la gratitudine per chi è lì accanto a loro con l’obiettivo di mettere la parola fine. A chi ha percorso più di 8.000 chilometri per aiutarli.

La fatica emotiva di ricordare, di rispondere alle lunghe domande del questionario di identificazione [un questionario composto da diverse sezioni, oltre i dati anagrafici del familiare – dati anagrafici della persona scomparsa - fotografie disponibili della persona scomparsa - descrizione fisica (altezza/peso/colore di occhi e capelli) - Segni distintivi (cicatrici, tatuaggi, nei, malformazioni) - stato dei denti (se conosciuto) - abiti indossati l’ultima volta – oggetti personali ) - informazioni sul viaggio (imbarcazione, compagni di viaggio)] strema le persone e poi il tampone per DNA che è l’ultima speranza che rimane dopo dodici anni di attesa.
Ci colpisce la visita a casa di due genitori che cercano il proprio figlio. Non smettono mai di ringraziarci e di benedirci per essere arrivati da così lontano per ritrovare il loro figlio. l dolore di A. e della moglie B., nel sapere di aver perso il figlio nel naufragio, è un tormento che va oltre la semplice sofferenza fisica. A. sa che il figlio era su quella maledetta imbarcazione, ma non ha più avute notizie. Sa solo che il nome del figlio è tra gli scomparsi e che i compagni di viaggio gli hanno detto che è morto. Ogni giorno che passa senza una conferma, senza un corpo, senza un segno, alimenta l’incertezza e l’agonia di non sapere dove sia, come sia stato sepolto. Il dolore si mescola con la rabbia per l’impossibilità di avere risposte, la frustrazione di non poter fare nulla per cambiare la situazione. In questo vuoto di informazioni, il dolore diventa una presenza costante nella vita di A. e di sua moglie, un peso che schiaccia ogni speranza. La sofferenza si aggrava dalla consapevolezza che, sebbene il figlio sia scomparso anzi lui sa che è morto, il ricordo e l’amore per lui sono rimasti immutati, ma il dolore per la sua assenza è paralizzante. Da quel giorno è come se per loro la vita si fosse fermata Per A. ogni giorno senza notizie è come il mare che non smette mai di agitarsi, dove ogni speranza di un ritorno si mescola con il terrore della definitiva perdita.

L’impegno del Comitato 3 ottobre (insieme con il LABANOF) da oltre dieci anni è quello di restituire l’identità ai morti dimenticati dei naufragi. Da anni il Comitato 3 ottobre in network con altre associazioni lavora costantemente per proporre migliorie da apportare in ogni paese dell’Unione europea al fine di allestire un sistema di raccolta dei dati sulle vittime. Il Comitato 3 ottobre si è impegnato anche in campagne di divulgazione e sensibilizzazione verso il pubblico e i decisori sul diritto dei familiari di poter identificare i propri cari scomparsi e ha avuto il merito di aver uscire questa materia dalle mura “degli addetti ai lavori” raccontando chi sono queste vittime, come muoiono e da cosa fuggono. Gli effetti di queste azioni di disseminazione sono stati molteplici. A livello internazionale il dibattito ha raggiunto in modo massivo i media, che hanno indicato a modello i protocolli messi a punto dall’Italia. Ma il risultato sicuramente più importante di questa attività di sensibilizzazione è stato che i parenti delle vittime, grazie al Comitato 3 ottobre che ha sempre fatto da tramite, hanno potuto mettersi in contatto con il LABANOF e quindi contattare i ricercatori per ricevere notizie dei propri cari scomparsi, in relazione al naufragio del 3 ottobre 2013.
E’ un percorso lungo oltre dieci anni quello che ha portato al progetto di identificazione delle vittime del Mediterraneo. L’Italia fu il primo Paese nel 2014, a farsi promotrice delle uniche operazioni identificative delle vittime dei naufragi grazie al lavoro dell’Ufficio del Commissario Straordinario per le Persone Scomparse assistito dall’Università degli Studi di Milano –LABANOF e dal Comitato 3 ottobre. Si è così iniziato, in un clima che sembrava suggerire che non fosse possibile identificare queste persone e che comunque nessuno di loro cercasse questi morti e che forse “per loro” non era così importante. Insomma un grande e lungo lavoro tecnico di riconoscimento, ma che avrebbe portato a ben pochi risultati. Tutto iniziò con il naufragio avvenuto al largo delle acque di Lampedusa il 3 ottobre 2013, nel quale hanno perso la vita 368 persone prevalentemente di nazionalità eritrea, che ha costituito un caso senza precedenti in Italia ed ha rappresentato una specie di spartiacque nell’approccio alla problematica dei cadaveri non identificati per la maggiore attenzione dedicata da quel momento alle procedure seguite per la raccolta dei dati.

L’attività promossa dal Commissario Straordinario per le Persone Scomparse ha rappresentato la prima nel suo genere, non solo nel nostro paese, e ha portato alla raccolta dati da circa 300 persone che cercavano i loro morti in quel disastro e che si sono mobilitate da varie parti d’Europa, dimostrando che i famigliari sentono fortemente questa esigenza Fino ad ora le salme identificate – e quindi le famiglie che hanno ricevuto una risposta - sono oltre 70 persone. Potrebbe essere di gran lunga maggiore il numero di queste riconoscimenti, se questi cadaveri (e i loro parenti) avessero lo stesso trattamento delle vittime dei “nostri” disastri europei. Le attività svolte ad oggi hanno avuto l’importante compito di dimostrare che i famigliari di questi naufraghi reclamano i loro morti e che questi morti possono essere identificati così come quelli di qualsiasi incidente aereo o disastro di massa. Ed è un diritto fondamentale dei vivi che li cercano. Tuttavia l’assenza di fondi (se non l’autofinanziamento), di leggi comune europee e di attenzioni per tale tematica ha fatto sì che per ora siano poche le famiglie, gli orfani, le vedove, i genitori e i figli a beneficiare di un certificato di morte e a poter finalmente iniziare un percorso di lutto.
Ciò che è un diritto fondamentale e non può essere delegato alle donazioni di enti filantropici privati e alla buona volontà della società civile, come finora è stato.
E’ fondamentale far prendere responsabilità all’Europa (che logisticamente è nella posizione ideale per identificare queste vittime poiché molti parenti sono in nord Europa e i cadaveri al sud) affinché tratti i morti di questo enorme disastro del Mediterraneo come quelli di tutti gli altri.