L'anniversario che non dovrebbe esistere

Tareke Brhane, Presidente Comitato 3 ottobre

Il 3 ottobre 2023 ricorrerà il decimo anniversario di uno dei più gravi naufragi avvenuti negli ultimi anni nel Mediterraneo.

Il 3 ottobre 2013, 368 persone morirono al largo di Lampedusa, sconvolgendo il mondo e strappando per qualche settimana il velo di indifferenza che copriva la terribile crisi umanitaria in atto. E' stato impossibile non vedere e non sentire: le immagini dei cadaveri galleggianti, i racconti dei pescatori che per ore hanno cercato di strappare i corpi al mare, le testimonianze delle persone sopravvissute. Ma poi sulla vicenda, e sul dramma del Mediterraneo, è tornato l'oblio. 

Sono passati 10 anni da allora e purtroppo nulla è cambiato. La situazione nel nostro mare continua ad essere drammatica. Da allora almeno 28.000 bambini, donne e uomini sonoannegati nell'indifferenza totale degli Stati europei. 10 anni di morti, 10 anni di tragedie. 10 anni di "mai più", ripetuti più e più volte dopo ogni disastro in mare, fino a perdere quasi di significato. Parole vuote a cui non hanno fatto seguito azioni politiche concrete. Penso che dovremmo essere tutti stanchi. Stanchi dell’indifferenza con cui aggiungiamo morti anonimi, numeri senza volto e senza storia, all’elenco spaventoso della strage di questi anni. Soprattutto, dovremmo essere stanchi della crudele ipocrisia che usiamo per parlare di questi naufragi o meglio di queste tragedie accertate. Complessivamente, si parla di oltre 28mila morti in questi dieci anni, 28mila annegati. Sono certamente di più. Raccontiamo dei viaggi su barconi e barche della morte, oscurando l’elemento fondamentale: siamo noi, italiani ed europei, che con le nostre politiche costringiamo milioni di persone a viaggiare e morire così.

Emigrare non significa morire in un viaggio incerto e crudele. Non è mai stato così. Non è stato così per milioni di italiani emigrati nel Mondo nel 1800 e nel 1900. Non è così per i quasi 200mila italiani, che ogni anno lasciano il nostro Paese convinti che qui non ci sia futuro per loro. Se ne vanno usando treni, autobus, aerei. Viaggiano in tutta sicurezza. Vanno verso un futuro incerto, ma ci vanno senza rischiare la vita. 

Emigrare è questo. È banalmente questo. Non è attraversare un deserto affidandosi a persone che ricattano, stuprano, rubano, uccidono. Non è restare per mesi prigionieri di bande criminali in Libia, Turchia o Tunisia. Non è essere costretti a salire su barche fatiscenti – o camminare lungo la pericolosa rotta dei Balcani – sperando di toccare terra o di essere salvati dalle navi delle ONG. Emigrare non può nemmeno essere il ricatto di uno Stato che pretende di fare cassa sulla disperazione e sofferenza delle persone.

Emigrare è un diritto riconosciuto dalla comunità mondiale, soprattutto da quella parte – Europa e Italia – che si proclama patria dei Diritti Umani, quei diritti che sanciscono, appunto, il diritto ad emigrare. Non è così. L’ Europa o meglio “la fortezza Europa”, Italia inclusa, chiude le porte, spaventata dall’arrivo di 150mila persone all’anno. E lo fa giocando con le parole. Perché coloro che viaggiano lasciando la loro casa per raggiungere un luogo che sperano migliore, si chiamano emigranti, con la “e” davanti. Definirli, come facciamo, “migranti” significa metterli in un mondo generico, in cui non si scandisce un luogo da cui sono partiti e uno in cui sono arrivati. Quando arrivano e si stabilizzano, infatti, quelle persone diventano immigrati. Farli uscire dalla genericità perversa dell’essere “migranti”, significherebbe riconoscere a quegli esseri umani un punto di partenza e uno d’arrivo e, di conseguenza, riconoscere che hanno un viso, una storia, un nome, una vita. Tutte cose che evitiamo di riconoscere. Quelle persone le chiudiamo in un limbo astratto e non umano: quello dei migranti, del nulla, appunto.

Un limbo con cui possiamo convivere, nutrendoci di ambiguità. Basterebbe cambiare le leggi che ci siamo dati e la Bossi-Fini del 2002, è la madre di tutto questo. È il sigillo che abbiamo usato per impedire agli stranieri di venire in Italia ed Europa. Abbiamo tenuto aperto un varco, quello dei rifugiati per chi scappa da guerre e e da persecuzioni. Così, chi arriva in Italia, può dichiararsi “rifugiato” e chiedere “asilo”. Questo comporta un sistema di accoglienza molto complesso, una situazione di emergenza che dura da trent’anni. Se, però, riuscissimo a regolamentarizzare il flusso migratorio per quello che è un fatto insito nell’essere umano, tutte queste stragi non esisterebbero. Non avremmo più rotte della morte, campi di concentramento in Libia, Tunisia e Turchia, ONG in mare per salvare vite. Nessun governo, a prescindere dal colore, lo ha fatto in questi 10 anni. 

Ogni volta che piangiamo un morto in mare ricordiamolo: esistono i responsabili. E non solo si fa poco e nulla per evitare queste morti, ma anche da morti li lasciamo in un limbo. Il limbo delle vittime senza nome. La gran parte di quei 28.000 cadaveri, ad oggi, non ha un nome. Non c’è un sistema integrato per il conteggio delle morti e molti di coloro che hanno perso la vita in mare non verranno mai portati a riva o se ci arriveranno probabilmente saranno depositati senza nome e senza funerale in un cimitero in Italia o in Grecia. E’ urgente avviare un progetto di collaborazione europeo affinché venga riconosciuto il Diritto all’Identificazione delle migliaia di cadaveri tumulati senza nome nei cimiteri europei. L’Italia ha un modello che può essere esteso a tutti i Ventisette. Solo implementando un database in ogni Stato europeo dove raccogliere tutte le informazioni sui cadaveri senza nome e migranti scomparsi potremmo dire di aver implementato le procedure necessarie per ottimizzare le probabilità di identificare i cadaveri e, quindi, di tutelare i diritti delle vittime e delle loro famiglie.