Storie di chi è sopravvissuto ai naufragi

Wahid Yussed, siriano sessantunenne, già direttore del reparto di Pneumologia in un ospedale della Libia. Nel naufragio dell’11 ottobre ha perso quattro figlie: Randa, Sherihan, Nurhan, Christina di 10, 8, 5 e mezzo e quasi 2 anni. Bambine i cui corpi, dopo il naufragio non sono stati mai trovati. Dopo il naufragio è stato, per 7 anni, come rifugiato politico, in Svizzera. Da 2 anni, insieme alla moglie anch’essa sopravvissuta e con le due figlie nate successivamente, vive a Dussemburg in Germania dove studia il tedesco e spera di poter tornare a lavorare in reparto.

Solom è sopravvissuto al naufragio del 3 ottobre 2013. Ora vive e lavora in Svezia per un’azienda trasporti di Avesta. E’ sposato con una connazionale e ha un bambino. E’ scappato dall’Eritrea, e, con i suoi amici, ho attraversato l’Etiopia, il Sudan, il deserto del Sahara fino in Libia. E’ stato rapito e gli hanno chiesto 5 mila dollari per essere liberato. Suo fratello ha pagato il riscatto ed è partito finalmente dalla Libia. Dopo il naufragio è arrivato in Svezia. All’inizio non è stato semplice. Il governo svedese, una volta riconosciuto lo status di rifugiato, gli ha prestato 15 mila euro per acquistare l’arredamento per l'appartamento, per pagarsi un buon corso di svedese e per iscriversiad un corso professionale utile.

Fanus è sopravvissuta al naufragio del 3 ottobre 2013. Aveva 16 anni il 3 ottobre ed è stata l’unica a riconoscere lo scafista e a denunciarlo. E’ rimasta 3 mesi, allora, all’interno dell’hotspot. Da Lampedusa è arrivata in Svezia dove è rimasta per 3 mesi in un centro di accoglienza. Oggi ha tre figli e spera di diventare cuoca e di lavorare nella ristorazione.

Aster era la moglie di Yoannes morto nel naufragio del 3 ottobre 2013, il cui corpo mai identificato ufficialmente. Aster e Yoannes vivevano con i loro 3 figli in un campo profughi in Sudan. Venne a sapere da un trafficante che il marito era morto nel naufragio. Dal 2016 vive in Svezia con i figli ed è così riuscita a realizzare il sogno del marito. Dopo un primo anno in un centro d’accoglienza, ha imparato lo svedese ed ora lavora come operatrice socio sanitaria in una RSA. Ora, il suo desiderio è quello di dare una degna sepoltura al marito.

Adal è stato il primo, il 3 ottobre del 2013, ad arrivare, da naufrago, a Lampedusa e a ricostruire tutti i nomi delle vittime. Ha perso suo fratello nella tragedia. Ora vive a Stoccolma.

Siriano, sopravvissuto con la moglie Feryal e il figlio Anas al naufragio dell’11 ottobre 2013. Refaat ha perso nel naufragio due figli: Mohammad, 9 anni, e Ahmed, 13. Oggi vive ad Amburgo, dove per il momento non lavora. In Siria, a Damasco faceva il barbiere, ma non ha ancora aperto il suo negozio. Dopo quello che è accaduto non sta ancora bene psicologicamente e il governo tedesco gli permette di restare a riposo fino a quando non mi sarà ripreso dando alla famiglia un sussidio. Dal momento della tragedia cerca disperatamente i suoi figli. I loro corpi, ad oggi, non sono stati identificati. Ha fatto l’esame del Dna con il supporto del laboratorio Labanof di Milano, ma il loro DNA non corrisponde con nessun campione estratto dai corpi recuperati in mare. Mohammad e Ahmed potrebbero essere in uno dei cimiteri della Sicilia in cui negli anni sono stati sepolti i resti dei morti senza nome recuperati in mare.

Alex è sopravvissuto al naufragio del 3 ottobre. Alex nel naufragio ha perso il suo più caro amico, ma da allora non ha più parlato di quella notte. Non è mai esistita, è una cicatrice nera dentro all'anima. Ora vive a Amersfoort, in Olanda ed è padre di una bambina, Enos. Ha una moglie, Rachele.

Gere è sopravvissuto al naufragio del 3 ottobre e ragiona così: In Svezia dove vivo ormai da anni mi sento abbastanza integrato anche se devo ancora migliorare l'uso della lingua, ambientarsi non è facile per nessuno. Alla fine succede che noi eritrei ci frequentiamo solo tra di noi. Gli svedesi ci trattano bene, non sento insofferenza, ma sanno anche come mantenere le distanze. Gere ha poca voglia di parlare. E di ricordare quello che è stato, per lui, il 3 ottobre.

Ha 34 anni, a Stoccolma abita in un appartamento pagato dal ministero del Welfare. Fa il badante per gli anziani. Alla domanda se ne valsa la pena, risponde: Sì. Ma il viaggio sulla barca non lo rifarei mai” e continua: “Davanti al mare di Lampedusa piango per chi è morto, e sorrido perché mi sento rinato. Born again. Data di rinascita: 3 ottobre 2013.

C'è qualcosa che però non ha ancora capito: "Poco prima che il nostro peschereccio affondasse, due barche si sono avvicinate. Una se n'è andata subito, l'altra ha fatto un giro attorno a noi e poi si è allontanata. “Perché non ci hanno aiutati?”.

Kebrat era morta. L'avevano ripescata che non si muoveva, gli occhi chiusi, priva di sensi. I soccorritori l'avevano adagiata sul molo Favaloro, accanto ai cadaveri. Poi un conato di vomito, lei che sputa nafta e acqua. La vita che non ci sta a finire. "Sì, me lo ricordo bene quel momento..." Kebrat oggi ha 34 anni ed è una mamma di tre bambini. Abita nella periferia di Stoccolma con il suo compagno, un eritreo col nome italiano. "Si chiama Michele, come il santo". Segue i corsi di lingue predisposti in Svezia per i rifugiati, ma non lavora.

La vita dopo il 3 ottobre non ha per forza il lieto fine incluso nel prezzo, altissimo, che i sopravvissuti del peschereccio hanno già pagato. "Abbiamo tutti perso tanto, troppo. Ho visto morire mia cugina davanti ai miei occhi, ho visto affogare i miei amici. Il viaggio è stato terrificante, non sapevamo cosa ci aspettava. Oggi dico che non lo so più se ne è valsa davvero la pena". Ha 31 anni, ma ha già visto tante cose. "Certo che ce l'ho un messaggio per chi è rimasto in Eritrea: non venite con il barcone. Non fatelo". Abraham vive a Hiyanger, nella provincia norvegese di Sognogfjorde.

A un'ora di macchina da Stoccolma, Kokob ha trovato un nuovo padre. Si chiama Cristian, è svedese, ha 52 anni e gli insegna a dominare il buio. "Vado a scuola a Eskilstuna per imparare la lingua, ma quando spengo la luce in camera mia, vedo ancora loro". Loro, i cinque compagni di viaggio eritrei che non ci sono più, ingoiati davanti all'isola dei Conigli. Quel 3 ottobre Kokob aveva 13 anni, era incastrato non si sa come sul peschereccio tra centinaia di gambe e braccia sudate. Si ricorda le stelle di Lampedusa. "Infatti Kokob in tigrino vuol dire stella".

La fede nella Madonna non l'ha mai perduta. Nemmeno quando era semisvenuto nell'acqua e la corrente lo stava trascinando lontano. "Pregavo la Vergine, ed è stata lei a guidare la mano che mi ha ripescato". La Vergine da allora la tiene sempre al polso, su un braccialetto di legno che gli hanno regalato nell'unica chiesa cristiano ortodossa di Bergen in Norvegia. Temesgen ha 30 anni e il destino nel nome: "Significa Grazie a Dio". Non spiega come sia arrivato a Bergen, dopo Lampedusa, e perché abbia scelto la Norvegia. Ha ottenuto lo status di rifugiato, e si è iscritto a una scuola pubblica dove impara la matematica, l'inglese, l'educazione civica. Lavora come carpentiere.

ll 3 ottobre del 2013, Yosef è riuscito a restare a galla per cinque ore. Era a 800 chilometri dall’isola dei Conigli, a due chilometri dal porto di Lampedusa. Era partito dalla Libia e poche ore dopo è diventato uno dei pochissimi sopravvissuti alla più grave strage del Mediterraneo, quella in cui persero la vita 368 persone, in gran parte eritree, come lui. «Non so come ho fatto.», racconta, «Ricordo le voci, le grida, il rumore delle braccia che cercavano di spezzare l’acqua». Per Yosef è quasi impossibile raccontare. Ha 31 anni, è uno di quelli che è riuscito a ripartire da zero. Oggi vive in Svezia, si è sposato con la donna che amava, eritrea come lui, e insieme sono diventati genitori di due bambini

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