“Oltre quel confine è la mia casa”. Al museo di Lampedusa la mostra fotografica dei rifugiati Rohingya

In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, il 20 giugno 2022, undici fotografi Rohingya esporranno – per la prima volta in Italia – all’interno del Museo della Fiducia e del Dialogo del Mediterraneo a Lampedusa – il loro lavoro con immagini di vita quotidiana dei campi rifugiati.

Nell’agosto 2017 l’esercito del Myanmar condusse una violenta campagna militare contro i Rohingya della regione nord-occidentale del paese. L’esercito spinse centinaia di migliaia di Rohingya verso il confine con il Bangladesh via terra e via mare, seminando migliaia di vittime durante l’operazione.

Circa 800.000 Rohingya si ritrovarono senza una casa e un riparo. I nuovi arrivati costruirono capanne di bambù e tela cerata lungo tutta l’estremità sud-orientale del Bangladesh. Queste aree furono poi soprannominate “campi”. A volte sorgevano a uno o due chilometri di distanza dal confine con il Myanmar.

una foto in bianco e nero di decine di bambini attorno a una piccola ruota panoramica di legno
foto in bianco e nero di una famiglia che cammina a piedi nudi

In Bangladesh, ai Rohingya non sono mai stati riconosciuti diritti come rifugiati. Ancora oggi vengono definiti “infiltrati.” Possono spostarsi soltanto all’interno dei campi. Non ricevono un’istruzione formale e quella informale è rivolta esclusivamente ai bambini al di sotto dei 14-15 anni. Esiste un’intera generazione di “bambini smarriti” analfabeti e privi di istruzione.

I rifugiati non possono lavorare, per questo dipendono dalle razioni di cibo che vengono loro assegnate. Regna la fame e la violenza. La vicinanza con il confine li espone a ulteriori pericoli come il traffico di droga e di esseri umani.

Questa mostra fotografica scattate dai rifugiati Rohingya è molto lontana dalle rappresentazioni che solitamente vengono trasmesse dai media in Bangladesh. Le fotografie diffuse dai mezzi di informazione, infatti, sminuiscono la complessità della vita dei rifugiati e sottolineano una serie di aspetti negativi. Si evince un costante tentativo di attribuire ai Rohingya caratteristiche ostili, suggerendo, in maniera più o meno esplicita, il loro essere “persone non gradite” e un peso a livello sociale. Nell’arco dei 4/5 anni trascorsi dal 2017, si è delineata una narrativa decisamente ostile che ha ben poco a che fare con la vita reale dei rifugiati che popolano quell’area. L’immaginario predominante diffuso dai media sui Rohingya in Bangladesh alimenta politiche d’odio e di esclusione.

Seppur messi a dura prova dalla realtà del campo e dal tragico ricordo del genocidio in Myanmar, questi fotografi Rohingya non si abbandonano alla negatività. Liberi dai dettami di editori legati a logiche sensazionaliste, i fotografi Rohingya hanno potuto scegliere cosa rappresentare e come farlo. I loro scatti trasmettono emozioni, ricordi, sfide e anche passatempi. Audacia in una situazione di pericolo. Uno dei fotografi che ha contribuito a questa mostra è finito in carcere. Un altro è stato interrogato e percosso per 9 ore. A molti altri è stato intercettato e/o confiscato il cellulare. A un altro fotografo, un agente del Battaglione della Polizia Armata dei campi ha ordinato di fare una serie di addominali perché aveva visto qualcosa che non gli era piaciuto nel suo telefono.

foto in bianco e nero di una donna velata dietro una macchina da cucire vecchio stile

Queste fotografie scattate “dal basso” offrono a chi le guarda un piccolo scorcio del grande quadro della vita quotidiana dei rifugiati. Non si tratta soltanto di fotografia documentaristica o di reportage, bensì del trionfo di una comunità contro il lavoro di odio condotto dai media. È una dichiarazione di resistenza.

Shafiur Rahman è un giornalista e regista di documentari. Si occupa dei Rohingya dal 2016. I suoi lavori sono stati trasmessi su diversi canali, tra cui CNN e BBC. È fondatore del Concorso di Fotografia Rohingya che si tiene ogni anno e curatore del Rohingya Zine, Doc Sabba. I suoi articoli sul tema sono apparsi sul The Guardian, The Washington Post, Vice e in altre testate e riviste.